Un unico obbligo alle imprese coinvolte nella riapertura: garantire che all’interno degli ambienti aziendali siano applicate le misure di sicurezza concordate tra le parti sociali a livello nazionale.
Sembra abbastanza chiaro. Va applicato il protocollo sicurezza richiamato dal noto DPCM del 26 aprile. Non è prescritta alcuna comunicazione ulteriore, non serve un’autorizzazione preventiva o un controllo terzo che attesti la conformità delle misure adottate dal protocollo.
Tuttavia, la stessa norma (art. 2, comma 6), fissa una sanzione in caso di mancato rispetto del suddetto obbligo: la sospensione dell’attività fino al “ripristino” delle condizioni di sicurezza. Già la scelta nell’uso del verbo ripristinare porta a molteplici problemi non solo interpretativi ma anche logici, fa intendere riportare allo stato di prima (sicurezza ante covid-19?), o rimettere in funzione (far ripartire le misure di sicurezza che, ritenute non rispondenti al DPCM hanno portato alla sospensione dell’impresa?). Cercando di superare la – ennesima – scelta infelice lessicale e puntando all’intenzione del legislatore, come ci suggerisce l’art 12 preleggi c.c., il problema continua a sussistere. Non si comprende, infatti, l’iter amministrativo che dovrebbe portare da una sospensione dell’attività ad una eventuale riapertura della stessa (comunicazioni, richieste di verifica, tempistiche…).
Ancora. Nel Protocollo Sicurezza si delinea una sorta di percorso “flessibile” per il rispetto dell’adempimento di sicurezza. In generale, quindi, ciascuna impresa potrà limitarsi all’applicazione del protocollo nazionale rispettando le indicazioni ed adottando le misure protettive ivi contenute. Tuttavia, viene aggiunto che ogni azienda può integrare le suddette misure con altre equivalenti o più incisive, qualora valuti necessario ed opportuno rinforzare le misure in relazione alla propria organizzazione.
Viene richiesto, in altre parole, di costruire una cortina di ferro. E su quella, se del caso, innalzare torri. In quale modo? Attuando il proprio e personalizzato piano di sicurezza, cioè un documento in cui si elencano le misure cd. anti contagio, ulteriori rispetto alle misure statali ed adattate allo specifico contesto produttivo.
Ovviamente tali misure dovranno essere concertate con le parti sociali. Il datore di lavoro dovrebbe decidere misure ulteriori e “condividerle” con il Sindacato, in un processo che dovrebbe essere simile alle fasi consultive che già il nostro ordinamento conosce ed applica (es. licenziamenti collettivi).
Ultima novità: le misure di sicurezza dell’azienda possono essere aggiornate grazie alla costituzione di un Comitato apposito i cui partecipanti siano le rappresentanze sindacali aziendali e la parte datoriale. Per le aziende che non hanno RSA? Coloro che hanno sistemi di concertazioni su piani diversi rispetto a quello aziendale potranno svolgere confronti all’interno di organismi costituiti a livello territoriale, con buona pace – probabilmente – della specificità aziendale.
Per le altre il Comitato non si crea, e l’aggiornamento resta un obbligo datoriale. Sempre che il datore ritenga sufficiente – legittimamente – applicare solo il DPCM.
Nel complesso questa cd. Fase 2, oltre a lasciare aperti moltissimi dubbi applicativi e gestionali, porterà ad ampliare il divario già esistente tra aziende che potranno contare su una sorta di “cogestione” della sicurezza – con tutti i risvolti di legittimo affidamento dei lavoratori e di garanzia per il datore di lavoro, ed aziende che decideranno in autonomia, portando, inevitabilmente, divari tra trattamento dei lavoratori nello stesso settore ed il moltiplicarsi di controversie in un periodo che mette già a dura prova l’imprenditoria italiana.
Avv. Giulia Guerrini