In vista dell’attuazione della cd. fase 2, il 24 aprile 2020 è stato integrato il Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo dove vengono ampliate e specificate delle regole per il contrasto al virus.
È stato anche reso pubblico dall’INAIL il “Documento Tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da Sars-cov-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione” che, come spiega al suo interno, serve per fornire elementi di supporto al processo di decisione politica.
Pertanto, dovrebbe essere di ausilio tecnico per adottare misure “scientificamente” accettabili, tuttavia all’interno alcune osservazioni rischiano di far virare i prossimi interventi verso una ampliata nozione di responsabilità dell’imprenditore.
Il Documento è stato redatto da un Comitato Tecnico Scientifico ed ha usato a supporto studi statistici e della comunità scientifica nazionale e globale.
Sostanzialmente il Documento delinea una metodologia innovativa di valutazione integrata del rischio e di adozione di misure organizzative, di prevenzione e protezione.
Dall’osservazione dell’epidemia tra gli operatori sanitari, viene dedotto uno specifico rischio di infezione in “occasione di lavoro”, usando una terminologia del tutto impropria, visto che, come anche riconfermato nel Protocollo del 24 aprile, il Covid-19 è un “rischio biologico generico” e non una malattia che inerisce strettamente al lavoro.
Dopo tali premesse, viene fatta una classificazione per il “rischio di contagio” che si basa su tre fattori (esposizione, prossimità e aggregazione) da valutare secondo una scala predeterminata. Il risultato tra i tre parametri porterà a stabilire se un settore produttivo integri un basso, medio o alto rischio di contagio.
Vengono quindi attribuite delle “classi di rischio” generiche per tipologia di azienda, che vengono poi sviluppate alla fine del documento. La logica vorrebbe che le attività a “basso rischio” non rientrino nella sospensione del cd. lockdown, mentre quelle ad alto rischio, esclusi i servizi definiti “essenziali” in questo periodo, coerentemente siano sospese. Ebbene, è interessante vedere come tante attività giudicate a basso rischio siano tuttavia ancora sospese.
Non solo. Il Documento, una volta attribuite le classi di rischio definendole orientative, aggiunge che le aziende possono “mitigare sostanzialmente il rischio” anche per rispondere a specifiche complessità. Siamo d’accordo che una generalizzazione non potrebbe soddisfare ogni realtà aziendale, ma un assunto di tale ampiezza fa pensare che le misure che “potrebbe/dovrebbe” adottare l’azienda possano superare anche la normativa, mettendo quasi le basi per una “responsabilità oggettiva” in caso di Covid-19 contratto sul luogo di lavoro, anzi, contratto in occasione lavorativa, facendovi ricomprendere anche, con una probatio diabolica, come esplicitamente viene riportato dal Documento, gli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro (cd. commuting).
Ancora. Il Documento parla di “lavoratori suscettibili” e di “lavoratori fragili” facendo intendere una particolare attenzione anche per le difficoltà di ordine psicologico e non strettamente medico, aumentando ancora di più l’obbligo di controllo datoriale sulla salute e sicurezza dei lavoratori (sentimento di isolamento e disponibilità dei lavoratori).
Sembra, cioè, prendere piede quello che si può definire un ampliamento illegittimo della responsabilità datoriale. Illegittimo perché, finora, come anche conferma l’integrazione al protocollo del 24 aprile, il Covid-19 è un “rischio biologico generico” di natura emergenziale, e non un rischio professionale.
Pertanto, dovrebbe permanere solo l’obbligo di attenersi strettamente alle indicazioni pubbliche straordinarie. Il datore di lavoro non potrebbe né dovrebbe assumere iniziative diverse dalle indicazioni pubbliche. Soprattutto, come confermato anche dalle associazioni di categoria datoriali, non può essere chiamato a valutare un rischio relativo ad un pericolo che non ha introdotto in azienda e che la comunità scientifica non conosce e, conseguentemente, ad adottare misure che sarebbero, inevitabilmente, inadeguate. Non si può, in altre parole, attribuire una responsabilità alle imprese maggiore, stante anche il difficile periodo economico che inevitabilmente dovremo affrontare.
Ovviamente ogni datore di lavoro terrà conto, insieme alle parti sociali, della specificità della propria azienda, senza che questo possa significare travalicare i limiti degli interventi governativi in costante aggiornamento. Non può in alcun modo essere richiesta l’individuazione di misure diverse o ulteriori rispetto a quelle indicate.
Avv. Giulia Guerrini