[COVID-19] Il divieto dei licenziamenti in azienda – esclusioni e risvolti pratici

Il Decreto Cura Italia prevede all’art. 46 che, dalla data della sua entrata in vigore (17 marzo 2020) e per i successivi 60 giorni (15 maggio 2020 compreso), il datore di lavoro non possa avviare nuove procedure di licenziamento collettivo e sospende quelle pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020. Inoltre, prevede che, a prescindere dal numero dei dipendenti, non si possa effettuare alcun licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiamando l’art. 3 della L. n. 604/66.

Tralasciando il reale (ed erroneo) significato letterale della rubrica apposta dal legislatore “Sospensione dei termini per l’impugnazione del licenziamento” ed attenendoci al brocardo latino secondo cui “Rubrica legis non est lex”, i dubbi interpretativi sono comunque rilevanti.

La norma è chiara nell’attestare che, nei suddetti 60 giorni, NON possono essere avviati licenziamenti collettivi (rif agli artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991), che le procedure pendenti e avviate dopo il 23 febbraio sono sospese, e che a prescindere dalla dimensione aziendale non si può effettuare alcun licenziamento per G.M.O.

Sicuramente la data del 23 febbraio 2020 genera una presunzione dell’avvio della procedura per l’emergenza sanitaria in corso, ed infatti ciò è confermato anche dalla ratio del decreto, che si pone come contrasto agli effetti economici occupazionali dati dal covid-19.

Pertanto, si può affermare che le procedure per licenziamento collettivo iniziate prima, e, soprattutto, con altre motivazioni sottostanti (es. cessazione di attività) non debbano essere sospese.

Sempre che non si presuma che i licenziamenti generati dalla fine di queste procedure debbano ricadere nel giustificato motivo oggettivo dell’art. 3 L. n. 604/66, quindi risultare, quantomeno in via estremamente precauzionale, sospesi.

Altra difficoltà interpretativa riguarda il divieto di recesso per i licenziamenti individuali (art. 3 L. n. 604/66).

Sembra essere chiaro che non possano essere né avviate né concluse procedure di licenziamento per g.m.o. nel periodo di “congelamento” stabilito dal decreto.

Sicuramente, ad esclusione, saranno consentiti i licenziamenti per il lavoro domestico (rientranti nell’art. 2118 c.c.), il recesso libero per i lavoratori in prova, qualora il periodo di prova sia in scadenza e sia passato un periodo ragionevole dall’inizio della stessa che possa far escludere un recesso capzioso, i licenziamenti per fruizione del pensionamento per la quota 100.

Per i licenziamenti disciplinari (sia per g.m.s. che per giusta causa), esclusi anch’essi dal divieto, si pone il problema più che altro di rendere effettivo il diritto alla difesa del lavoratore, che potrebbe essere garantito attraverso audizioni in videoconferenza o nell’applicazione più elastica dei termini concessi per fornire le giustificazioni, stante anche la difficoltà momentanea di reperimento di un legale o di un rappresentante sindacale.

Sono esclusi dal divieto di licenziamento anche i contratti a tempo determinato il cui termine spiri durante il periodo previsto dal decreto. Non si tratta, infatti, di licenziamento, ma di cessazione del rapporto. Così come la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo di formazione.

Si deve ricordare che, ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto, non andranno computate nel conteggio le giornate di malattia dovute da covid-19 o da quarantena legata allo stesso, in quanto vengono equiparate, ai fini del conteggio, ad un infortunio (art. 26 DL. 18/20).

Un vero nodo da sciogliere, a mio avviso, rimane per la categoria dei Dirigenti per due ordini di ragioni. La prima è che, in caso di licenziamenti collettivi, i Dirigenti rientrano nei divieti già osservati, come tutti gli altri lavoratori coinvolti. Quindi, in caso di procedure che rientrino nel periodo imposto dal decreto, non possono essere licenziati.

Per i licenziamenti individuali, invece, la lettera della norma farebbe propendere per la loro esclusione dal divieto di licenziamento, non godendo delle tutele ex L. n. 604/66. Tuttavia, una tale interpretazione, sebbene sembri pacifica, creerebbe una disparità di trattamento con i dirigenti rientranti nelle procedure di licenziamenti collettivi e, soprattutto, darebbe al datore di lavoro un modo “sicuro” per disfarsi dei dipendenti con il costo annuo più alto. E questo sarebbe, in qualche misura, anche coerente con i beneficiari effettivi della cassa integrazione.

Resta anche il problema della distinzione giurisprudenziale tra il “dirigente apicale”, alter ego dell’imprenditore, per il quale, per quanto appena detto, nulla quaestio, e lo “pseudo-dirigente”, destinatario, per analogia, delle tutele della L. n. 604/66 e che, quindi, rientrerebbe nel divieto di licenziamento imposto dalla legge.

In  via prudenziale ritengo che nelle situazioni che possono dare adito a problemi interpretativi la soluzione ottimale sia considerare il divieto di recesso in termini estensivi ed includervi, quindi, le procedure dei licenziamenti collettivi avviate prima del 23 febbraio e la categoria dei dirigenti. Infatti, un eventuale licenziamento dichiarato giudizialmente illegittimo, per queste fattispecie, rientrerebbe nelle tutele dell’art. 18 c. 1, e dell’art. 2 c. 1 Dlgs n. 23/2015, ossia reintegra e tutela risarcitoria piena.

Avv. Giulia Guerrini

Avv. Giulia Guerrini – Studio Legale Fraioli Guerrini

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